Come passa il suo tempo, durante la lunga pausa forzata del lockdown tedesco, un giovane chef di talento come Daniele Bertoldo, allievo dell’Alta Formazione cuoco in CAST nel 2017 e un’esperienza da stagiaire al “Relae” di Christian Puglisi? Semplice, “fa andare le mani” come dice lui, ma anche la creatività, aggiungo io.
Rinnova la carta del ristorante italiano “L’Osteria La Fenice”, in cui lavora a Cuxhaven, Bassa Sassonia, avvia un laboratorio di pane e pasta fresca e sperimenta l’arte di conservare la carne, producendo salumi, insaccati e prosciutti con la materia prima locale. Tutto questo, per aumentare nei clienti del ristorante la percezione del valore dei piatti in carta ed “educarli” all’evoluzione del gusto della cucina italiana, proponendo piatti della tradizione gastronomica regionale italiana, ma rinnovati nei sapori e negli abbinamenti.
1. Come sei arrivato in Germania e quali difficoltà, se ce ne sono state, hai dovuto affrontare per esercitare il tuo lavoro di chef?
Il destino ha voluto che fossi in Italia e stessi cambiando lavoro proprio all’inizio del primo lockdown. Dopo aver “sondato” il terreno, tra maggio e giugno 2020, in cerca di un ristorante dove riprendere il prima possibile la mia carriera, ho capito che preferivo continuare il mio viaggio di crescita professionale nuovamente all’estero.
Io e Massimo (il titolare del ristorante “L’Osteria La Fenice”- ndr) ci siamo conosciuti sulla piattaforma LavoroTurismo.it e quella che doveva essere una “scappata in Germania” è diventato un progetto più ampio che sta riformulando il tipo di cucina proposto dal ristorante e sta consolidando la nostra presenza sul mercato ristorativo locale, anche con l’apertura di un laboratorio di produzione di pasta e pane.
Le difficoltà più grandi, chiaramente, sono legate alla conoscenza del tedesco (a cui sto cercando di rimediare il prima possibile :), ai rapporti con i fornitori locali che non sono sempre stati semplici, soprattutto nel far comprendere il concetto di qualità assoluta che ho perseguito fin da subito, e le condizioni di lavoro dovute alla pandemia che non mi hanno certo permesso di operare con serenità.
2. Com’è è percepita oggi la cucina italiana in Germania e come viene proposta più comunemente? Siamo ancora solo “pizza e pasta” o è cambiata la cultura generale verso il cibo Made in Italy?
Purtroppo, qui in Germania, nel maggior parte dei casi la cucina italiana è legata ai “cliché” classici, per cui un ristorante italiano non si può definire tale se non fa pizze, bolognese e lasagne. A me i cliché mi sono sempre stati stretti. “L’Osteria La Fenice” qui, a Cuxhaven, ha sempre cercato di distinguersi, lavorando con un concetto di qualità, e da quando sono arrivato, stiamo puntando con ancor più decisione ad abbattere questi cliché, piatto dopo piatto…
3. Nel ristorante italiano dove lavori, gran parte dei prodotti vengono realizzati in casa. Come ti sei organizzato per reperire le materie prime?
Tutto ciò che importiamo dall’Italia viene ordinato in collaborazione con la nostra pizzeria (che è sempre a Cuxhaven) con ordini che variano dal bisettimanale per le materie prime deperibili (latticini freschi, verdure particolari, tartufi) al trimestrale per le materie prime a lunga scadenza (formaggi stagionati e farine). Da fornitori locali ci procuriamo settimanalmente o quotidianamente il fresco: carne, pesce e verdure. Se le tempistiche lo permettono, adoro fare una volata al mercato il mercoledì e il sabato per scoprire cosa hanno da offrire i piccoli produttori locali che altrimenti farei fatica a visitare.
4. Hai fatto esperienze professionali sia in Italia che all’estero. Che differenze hai trovato, anche in termini di qualità di vita, nello svolgere il tuo lavoro di chef?
Questa è una domanda particolarmente delicata, perché sarebbe troppo facile cadere nella risposta standard: “In Italia non funziona niente”. Sicuramente, all’estero ho trovato condizioni contrattuali molto chiare e precise e in Danimarca ho potuto sperimentare la famosa settimana di lavoro da 4 giorni.
Qui in Germania poi, come nel resto del nord Europa, si tende a cenare presto, quindi capita spesso di riuscire a chiudere il ristorante ben prima di mezzanotte, aspetto certamente da considerare a livello di relazione tra lavoro e vita personale, famigliare.
Comunque sia, come per ogni cosa ci sono PRO e CONTRO soggettivi, che ognuno deve provare e valutare sulla propria pelle per capire cosa gli si addice di più. Ad ogni modo, la vita del cuoco rimane una scelta di vita tosta, come la conosciamo tutti noi professionisti della ristorazione, sia in Italia che all’estero.
5. Come hai conosciuto CAST Alimenti e perché hai scelto di approfondire le tue competenze nella nostra scuola?
Ho conosciuto CAST al JobOrienta di Verona nel 2017. Dopo la lezione di prova ho deciso di continuare i miei studi in CAST, in primo luogo per le competenze didattiche che avevo potuto osservare durante la prova e in secondo luogo per la “sensazione” di collaborazione, condivisione e per un “clima di famiglia” che ho percepito a scuola e che si è ampiamente confermato durante le 16 settimane in aula e oltre. Infatti, sono ancora in contatto con molti dei miei compagni di corso e con persone di altri corsi conosciute durante la permanenza in CAST.
6. ”Polpo,‘nduja e patate dolci”, “Melone d’inverno, cacio e pepe, lime”, “Risi, bisi e fragole di bosco”, e ancora “Storione, rapa svedese e guanciale” sono solo alcuni dei piatti che proponi al ristorante. Che riscontri ha la cucina italiana innovativa presso la tua clientela?
Rispetto a quello che il ristorante offriva prima che fossi io lo chef, abbiamo cambiato molte cose. Come conseguenza abbiamo perso parte della clientela più legata all’idea di ristorante italiano classico, ma abbiamo anche consolidato il rapporto con quella clientela fidelizzata disposta a sperimentare, oltre ad aver attirato nuovi clienti dalle città vicine (Bremerhaven, Amburgo, Brema) e stranieri che si trovano a Cuxhaven durante le vacanze (danesi, francesi e olandesi e in alcuni casi anche italiani). La poca capienza del ristorante ci permette di curare al meglio i nostri ospiti che spesso, dopo aver provato una prima volta la nostra cucina, tornano per il menù degustazione.
In carta teniamo comunque dei piatti “evergreen”, simbolo della storia del ristorante, come il “tagliolino, parmigiano 30 mesi e tartufo nero” o la tartare di fassona in tutte le sue declinazioni stagionali, a cui abbiamo variato leggermente le ricette, ma mantenuto la sostanza, migliorandone il risultato.
7. Hai lavorato in Francia, Danimarca, Germania: alla luce della tua esperienza, che consigli daresti a chi volesse fare lo chef all’estero?
La capacità di adattamento sicuramente aiuta parecchio, sia a livello personale che professionale; solo così le valige diventano sempre più leggere. Man mano si impara cosa è veramente necessario e cosa è solamente “peso inutile” che ti porti dietro.
Curiosità, umiltà e voglia di fare: se manca anche una delle tre, difficilmente si sopravvive in questo mondo, ancora di più se sei a migliaia di chilometri da casa, lontano alle tue radici e dalle persone a cui vuoi bene.
L’ultimo consiglio che vorrei dare si può riassumere in un detto della tradizione veneta: “Schei e paura, mai avui“ (Soldi e paura, mai avuti). Personalmente la “paura” ha sempre avuto un ruolo importante e negare di non averne avuta sarebbe assolutamente ipocrita. Quello che non deve mai accadere, secondo me, è di rimanerne schiavi. Provarci e sbagliare è assolutamente lecito, non provarci per paura di sbagliare è stupido.
Ah dimenticavo… Sicuramente conoscere un po’ della lingua del paese o un po’ di inglese aiuta, ma non è vincolante, mentre avere competenze professionali lo è …
8. Sei molto giovane, con la voglia di fare ancora molte esperienze: ci racconti i tuoi progetti per il futuro?
Vedo davanti a me ancora una lunga gavetta. C’è però una tappa certa nel mio percorso formativo: la riscoperta delle mie radici filippine attraverso la cucina asiatica, che per me acquista un significato non solo di crescita professionale, ma anche individuale. Potrei trovare lavoro al TOYO Eatery di Manila, chi lo sa? Sicuramente ci sarà ancora un’esperienza a Copenhagen per approdare poi, alla fine di questo lungo viaggio, in Italia, al nord o al sud, poco importa. Ho ancora un sacco di avventure da vivere grazie al mio mestiere e non mi metto mai troppi paletti!
Vorrei però che tutto il mio girovagare un giorno si concretizzasse in quello che, fin dai tempi delle superiori, mi piace chiamare con il nome di #Rootsproject: un progetto a “ciclo chiuso” Produzione – Trasformazione – Servizio, sviluppato su uno o più locali. Mi diverte vedere come sia cambiato il progetto iniziale, alla luce delle varie esperienze che ho fatto in questi anni e sono curioso di scoprire come cambierà nei prossimi e come sarà realmente quando riuscirò a svilupparlo. Resta comunque un progetto valido e molto innovativo, se penso che me lo ha copiato anche René Redzepi con la sua “urban farm”! Scherzo, ovviamente. Fino a quel momento mi godo il viaggio e come dico di solito: “We will see …”