Dalila Salonia, 26 anni, pastry chef del ristorante 2 stelle Michelin “Il Pagliaccio” di Roma

Da bambina che sognava di fare il meccanico come il padre a pastry chef alla corte del geniale Anthony Genovese de “Il Pagliaccio”, il percorso professionale di Dalila Salonia (26 anni piemontese di Mondovì) segue una direzione ben precisa: la ricerca di una personale idea di equilibrio nell’arte pasticcera.

Dalila Salonia, 26 anni, pastry chef del ristorante 2 stelle Michelin “Il Pagliaccio” di Roma

Da bambina che sognava di fare il meccanico come il padre a pastry chef alla corte del geniale Anthony Genovese de “Il Pagliaccio”, il percorso professionale di Dalila Salonia (26 anni piemontese di Mondovì) segue una direzione ben precisa: la ricerca di una personale idea di equilibrio nell’arte pasticcera.

Ha scoperto tardi la sua vocazione, seguendo un corso di “arte bianca” alla scuola alberghiera, perfezionata in CAST come allieva-borsista al fianco dei più grandi maestri pasticceri. Tappe importanti nella sua formazione sono stati il 2 stelle Michelin “Villa Crespi” di Cannavacciuolo e gli stellati “Florian Maison” a Bergamo e “Magnolia” al Grand Hotel Via Veneto di Roma. Oggi, all’interno di una brigata affiatata e motivante, Dalila ha conquistato un equilibrio che rispecchia maturità e piena consapevolezza delle sue capacità. Lo dimostrano i suoi dessert essenziali e pressoché perfetti.

Amo l’adrenalina della cucina, dover preparare nello stesso momento diversi dessert

1. Chi consideri i tuoi maestri?
L’arte della pasticceria è così vasta e in continua evoluzione che mi è difficile scegliere “i miei Maestri”; anche tra i pastry chef, indicare una preferenza è molto complicato. In linea di massima, quando creo un nuovo dessert e sono alla ricerca di spunti, la mia ispirazione sono le opere di Massari, Comaschi e Forcone. Considero Massari un’enciclopedia vivente: quando gli facevo da assistente durante i corsi in CAST restavo incantata dalla vastità delle sue conoscenze nell’arte della pasticceria; potevi chiedergli qualsiasi cosa, le sue risposte erano sempre puntuali e precise. Di Emmanuele Forcone m’incanta la manualità, l’eleganza dei movimenti con cui realizza le sue piece, che rivela padronanza assoluta della tecnica. Davide Comaschi è un amico, oltre che un mago del cioccolato: gli ho fatto da assistente per la realizzazione del suo ultimo libro, passando notti intere a scegliere foto e trascrivere ricette…

2. Che ricordo hai del tuo periodo trascorso in CAST?
Il periodo in CAST mi ha aiutata a crescere, non solo professionalmente ma anche come Dalila, come persona: ha forgiato il mio carattere, spingendomi a colmare le lacune con la tenacia e a seguire la mia innata curiosità, laddove mi mancavano le basi di conoscenza tecnica. CAST mi ha permesso di formarmi, conciliando la teoria con la pratica e un sano spirito di competizione con me stessa.

3. Hai fatto anche l’esperienza del laboratorio: secondo te, in cosa si differenzia il lavoro di pastry chef dal pasticcere tradizionale?
La differenza è davvero molto sottile, ma credo che per essere un bravo pastry chef non basti essere l’esecutore di una ricetta, ma saper ricercare la perfezione del dessert, nel gusto come nell’estetica. Un pastry chef deve saper “ragionare diversamente”, uscire dagli schemi per creare mille combinazioni, anche al di fuori dai canoni tradizionali della pasticceria. E poi bisogna amare l’adrenalina che solo il lavoro in cucina sa produrre!

4. Qual è il processo che porta alla creazione di un dessert?
Credimi, creare un dessert è forse tra le più macchinose procedure della pasticceria. Cerco sempre di far trasparire me stessa nel piatto, di dargli una nota personale attraverso un colore, un sapore che segua la stagionalità, che al tempo stesso stupisca, ma senza soluzioni banali, conservando sempre la sua semplicità e la mia mano; l’intento è che non deve essere solo buono ed esteticamente bello, ma essere ricordato. Deve essere l’ultimo pensiero rivolto al cliente prima che si alzi dal tavolo, la perfetta chiusura di un’ottima cena.

5. In questo periodo in cui il delivery è diventato sempre di più parte del servizio ristorativo, come hai adattato la tua proposta di dessert?
Premesso che i miei dolci rispecchiano la filosofia di cucina dello chef de Il Pagliaccio, che è una spettacolare fusion franco-asiatica con radici mediterranee, ho dovuto adattare queste idee alla monoporzione, più adatta per il delivery. Mi sono anche messa nei panni di chi solitamente acquista il cibo da asporto e mi sono chiesta: “Cosa vorrei di sfizioso per concludere una cena senza appesantire e di cui, dopo averlo assaggiato, non potrei più fare a meno?” Ho scelto quindi dessert un po’ “piacioni”, meno complessi rispetto a quelli che proponiamo al ristorante dove è più facile seguire il filo concettuale che lega tutti i piatti. Ho dovuto pensare a dessert con finiture e strutture semplici, che possano affrontare indenni i sanpietrini romani!

6. Quello del pastry chef è un lavoro che consiglieresti, anche in un periodo di grande incertezza per il settore della ristorazione?
Consigliare un qualsiasi tipo di lavoro è sempre difficile… L’unico suggerimento che mi sento di dare, se ci si sente portati per questo mestiere, è di avvicinarsi prima di tutto al mondo della ristorazione/cucina per capire se davvero essere un pastry chef è una passione e un’attitudine o solo una moda passeggera. L’augurio è di arrivare come me, a coronare un sogno!

7. Che progetti hai per il futuro?
I miei progetti per il futuro cambiano in fretta, così come cambiano le aspettative, perché sono tantissimi gli stimoli che mi circondano facendo questo lavoro. Diciamo che sono ancora troppo giovane e curiosa per radicarmi a delle idee ma un punto fermo ce l’ho, saldo: continuare a lavorare nel mondo della pasticceria. Da qui ogni percorso è possibile…